martedì 23 giugno 2009

Due chiacchiere con Roxana Saberi

Che significato ha per te la libertà di stampa? Puoi darci una tua definizione personale?

La vedo come uno dei diritti umani fondamentali: usare i media per condividere informazioni con il pubblico, senza restrizioni preventive come la censura o la paura di punizioni per ciò che viene detto o scritto. Ovviamente la libertà di stampa non è assoluta ovunque. Ma è la chiave e un pilastro necessario per la democrazia.



Il nostro premio è dedicato ad una giornalista, Ilaria Alpi, che ha perso la vita per questo tipo di libertà. Non è stata la sola: ci sono molte donne che lavorano da zone calde del mondo come la Corea del Nord, l’Irak o l’Afganistan, che rischiano la vita tutti i giorni o sono costrette all’esilio. La lotta per la libertà d’espressione è più difficile per le donne?

Sono onorata di ricevere un premio intitolato ad Ilaria Alpi. Idealmente, il genere non dovrebbe essere un problema, ma può diventarlo a volte. Personalmente credo che possa essere sia un aiuto che un intralcio, a seconda del paese da dove si sta lavorando. In Iran, essere una donna a volte mi ha permesso di accedere a gruppi di donne dove gli uomini non erano ammessi. In altre occasioni, ho avuto difficoltà maggiori per fare servizi perché mi impedivano di entrare in alcuni posti, per esempio quando, una volta, stavo facendo delle riprese in Parlamento, nel 2005. Sono rimasta sorpresa e ovviamente questo può essere molto frustrante. Non credo che avrei mai lavorato per un organo di stampa che avesse rinunciato a mandarmi in zone calde a causa del mio genere femminile. E sono riconoscente per questo.



Abbiamo scelto te quest’anno, e il premio è lo stesso che ha vinto Anna Politkovskaja 2 anni fa. La conoscevi, o semplicemente conoscevi il suo lavoro? Come ti sei sentita quando hai saputo che era stata uccisa?

E’ con molta umiltà che ricevo il premio che anche lei ha ricevuto, ho il privilegio di aver condiviso con lei questa cosa. Non la conoscevo, ma ho sentito molto parlare di lei. La sua morte violenta mi ha molto addolorato, ho molto rispetto per la sua vita e il suo lavoro. La vedo come qualcuno che stava raccontando storie di persone normali a chi non poteva esserne testimone. Stava facendo inchieste sui diritti umani nonostante le pressioni che subiva e i pericoli che correva. Sembrava tenere molto più alla gente su cui stava informando che alla sua salute.



Come ti senti ad essere diventata quasi un simbolo, solo perché hai voluto fare il tuo lavoro con precisione e correttezza?


Penso che provare a fare inchieste con precisione e correttezza è qualcosa che molti giornalisti si pongono come obiettivo nel loro lavoro e se sono diventata una sorta di simbolo è stato, con tutta onestà, involontario. Stavo soltanto cercando di fare il mio lavoro così come fanno molti altri giornalisti. Sono contenta di aver vissuto e lavorato in un paese a cui avere ampio accesso è molto difficile per la maggior parte dei giornalisti stranieri. Ero motivata dall’idea di aver avuto un’opportunità speciale di imparare dagli iraniani, nella patria d’origine di mio padre, e di condividere quello che stavo imparando con persone che non sarebbero mai potute andare lì. Ho fatto questo lavoro perché mi piaceva e perché pensavo che avesse un qualche significato.

Quando io sono arrivata in Iran, nel 2003, e ho avuto il mio pass stampa, il governo era presieduto dal riformista Mohammad Khatami. Uno degli ufficiali di stato mi disse che non si aspettava che io e gli altri giornalisti stranieri raccontassimo solo le cose positive ma che, invece, dessimo una visione bilanciata degli eventi che accadevano. Mi è sembrato molto realistico: voleva solo dare una fotografia realistica del paese. Ma dopo che Mahmoud Ahmadinejad è diventato presidente, sembrava che non fosse più così. Le autorità sono diventate sempre più restrittive verso i giornalisti stranieri e anche verso quelli con doppia cittadinanza come me. Credo che questo sia pessimo, perché meno i giornalisti hanno accesso alle informazioni, più saranno fumose e limitate le storie che usciranno da quel paese. Fortunatamente, grazie alle evoluzioni tecnologiche, molti iraniani coraggiosi sono diventati dei reporter, da soli, e durante le proteste in corso, dopo le elezioni, molti di loro stanno mettendo on line resoconti, video e foto delle manifestazioni. Per questo vorrei dedicare questo premio che mi state gentilmente consegnando a tutti questi “citizen journalists”, così come a quei giornalisti che in Iran stanno provando a servire i loro lettori al meglio, nonostante le difficilissime restrizioni. Credo che loro siano più coraggiosi di me. E inoltre, vorrei dedicarlo anche a Zahra Kazemi, il giornalista irano-canadese che è morto in un carcere iraniano dopo aver scattato foto di familiari di persone imprigionate fuori da Evin, il carcere di Teheran dove sono stata anche io all’inizio di quest’anno.



Vorresti tornare in Iran oggi? Ci stai pensando?

Mi piacerebbe tornare in Iran, in futuro. Ora, mentre guardo l’evoluzione degli eventi durante e dopo queste recenti elezioni presidenziali, anche se sono lontana fisicamente dalla nazione, il mio cuore e la mia mente sono col popolo iraniano. Penso spesso all’Iran, è un paese eccitante, misterioso, di grande cultura e storia. La gente lì è stata molto ospitale con me. Molti iraniani sono fieri della loro nazione, ma allo stesso tempo la società è estremamente varia, e credo che questi sono gli aspetti che hanno contribuito a rendere l’Iran così interessante per me. Non mi sono mai tirata indietro dall’imparare nuove cose e dall’incontrare nuovi tipi di persone, con fatti locali, nazionali e internazionali che incidono costantemente sulle loro vite, in maniere diverse.





Puoi raccontarci qualcosa sui tuoi giorni in prigione? Cosa ti ha toccato di più?

Credo che la cosa più forte l’ho imparata dagli altri prigionieri, dalle altre donne che erano nella cella con me. Molte di loro erano accusate di essere delle minacce per la sicurezza nazionale, ma in realtà stavano lottando per alcune libertà basiche, come quella di pensiero o di credo, in maniera pacifica. Erano fortissime, e resistevano alle pressioni di chi voleva che confessassero crimini che non hanno mai commesso o che firmassero degli accordi. Resistevano per difendere i loro principi e perché sapevano che quello che avrebbero detto o fatto avrebbe avuto delle conseguenze per altri, fuori di prigione. Non ho contato poi le persone, poche, che appartengono all’establishment iraniano sembrano perseguire la verità e la giustizia. Molte altre, ovviamente, non lo fanno.



Che cosa pensi dell’attuale situazione in Iran? Hai speranza?

E’ molto difficile fare delle previsioni, perché dipende da come le persone che stanno protestando saranno trattate. Se le loro richieste saranno sentite in maniera pacifica, allora sì, ho speranze. Ma se a loro risponderanno con la forza o con mezzi violenti, potrebbero sopprimere questa corrente che sta alzando la voce. Ma solo temporaneamente: credo che a lungo andare le richieste e la sfiducia torneranno in superficie, e da lì gli iraniani potranno essere molto più potenti.

Sara Scheggia




Intervista telefonica, Rimini 18 giugno 2009

Qui la versione audio

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