martedì 2 marzo 2010

Istanbul

Istanbul, l'ombelico del mondo
di Sara Scheggia


Cristiani, ebrei, buddisti, agnostici. Bussate senza timori, questo è un luogo di pace. E' quanto si legge sulla porta del piccolo ufficio di informazioni sull'Islam della Moschea Blu di Istanbul, uno degli edifici di culto più imponenti del mondo musulmano. Difficile non subirne il fascino, visitarla è come aprire uno scrigno magico e saziarsi gli occhi poco a poco. L'atmosfera infonde rispetto, i libricini che spiegano chi era Maometto tranquillizzano: siete i benvenuti, basta non disturbare quando il muezzin chiama alla preghiera.



La Sultanahmet Camii sintetizza bene lo spirito della città. Capitale dell'impero orientale dei Romani prima, reggia di sultani poi, oggi Instanbul è sempre più in bilico su un sottile filo che dovrebbe trascinarla verso l'Europa, non certo in senso geografico. La luce filtra da 260 finestre, si riflette su più di 20 mila piastrelle Iznik e si intreccia sinuosa ai bassi lampadari che sembrano toccare il pavimento. Tappa obbligata per ogni visitatore, la Moschea Blu è il punto di partenza per rendersi conto di essere al centro della storia e della cultura, in una città in cui anche la polvere odora di antico e nuovo insieme. I due occhi di una donna in un lungo e largo çarşaf nero entrano insieme ad una ragazza giapponese con una t-shirt colorata e il capo scoperto: la prima va a pregare nella zona femminile, separata dagli uomini, la seconda vuole una foto ricordo. Entrambe tengono in mano una busta di plastica con dentro un paio di Converse. Fuori, all'ombra dei sei minareti che svettano sulle mille meraviglie della città, una giovane moglie velata si fa fotografare dal cellulare del marito. Qualche centinaio di metri più in là, un venditore di narghilè interrompe una chat su Facebook per iniziare la contrattazione con il turista di turno mentre, sulla sponda asiatica, un anziano si lamenta per i lavori della galleria ferroviaria del Bosforo che, presto, collegherà Üsküdar alla città vecchia.



“La Turchia confina con i paesi più diversi e da qui partono strade per l'Iran, l'India, la Cina”. Youssef viene da una regione al confine con la Bulgaria e gestisce un negozio di abbigliamento etnico a Beyoğlu, quartiere di tendenza tempestato di bar, ristoranti, catene di shopping globalizzato e botteghe alternative. Ogni tanto va in Nepal o a Goa, e torna con le valigie piene di pantaloni colorati, giacche di lana grezza, gonne che sanno di curry e incenso. “Mia madre è un buon esempio di quello che succede nel paese: è una fervida musulmana, ma tollera l'alcol – racconta mentre sorseggia un caldo elma çay, il tè alla mela – Lo fa per mio padre: nel paese dove sono cresciuto gli uomini bevono parecchio, anche se non potrebbero”. Già, l'alcol. A Taksim, il sabato sera, ne scorre a fiumi. A chiedere grandi pinte di Efes, la birra locale, sono soprattutto giovanissimi, seduti ai tavolini che costellano le salite e le discese intorno a Istiklal Caddesi, il corso principale. Sono ricchi e forse incosciamente progressisti, hanno l'iPhone e gli stivali di montone del brand australiano Ugg. Ascoltano i Franz Ferdinand e frequentano il Peyote o il Babylon, veri templi dell'underground musicale cittadino. Sono tantissimi a voler cercare posto in mezzo a loro, ma diventano troppo pochi a volerli come termometro sociale dell'intero paese.



Viva, sensuale, calda. Istanbul inghiotte chi calpesta le sue strade e si fa scoprire fin dalle viscere, con un paesaggio che cambia di continuo, senza mai avvisare. La mazzetta di colori è infinita: la si prende in mano alla Mosche Blu e, forse, non la si restituisce più.

1 commento:

perù ha detto...

Wooow!che bella e intensa che deve essere!bel resoconto...voglio andare anche io!!!!!